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Progetto LAIV: il teatro sui banchi di scuola

"Voglio fare teatro” mi dice mia figlia Laura. Ma non volevi fare il liceo?, le chiedo. “Certo che voglio fare il liceo!” La guardo come se non avessi capito nulla, ho l’espressione di un bradipo appena uscito dal letargo. Cercate
di capirmi, una figlia che passa dalle medie alle superiori è un’esperienza faticosa. Avrei dovuto indirizzarla, consigliarla, avrei dovuto fare come fanno i genitori seri, che già alle elementari prefigurano gli studi universitari della discendenza. Io, finita la scuola dell’obbligo, le ho detto: fa quello che vuoi, non voglio consigliarti nulla, mai sia che se non ti piace poi te la prendi con me! Ecco, non esattamente il comportamento di un padre modello.
Poi un giorno arriva a casa e mi dice: “faccio il liceo classico”. Ho sentito come una fitta allo stomaco. Ecco un’altra disoccupata, ho pensato, maligno. Ma una bella scuola di cucina no?, che con tutti i programmi tv sembra che fare lo chef oggi sia la cosa più desiderabile al mondo! Anche qui, capitemi: sono cresciuto in una periferia a rischio, studiare era un optional. Vedevo i ragazzi che facevano il liceo come fossero tutti figli di papà, borghesucci viziatelli. Era un pregiudizio, lo so, d’altronde si vive di pregiudizi, anche se non lo vogliamo ammettere. È come riesci a comportarti quando ti si piazzano di fronte, ed hanno quattordici anni e sono sangue del tuo sangue: lì si capisce quanto sei capace di scrollarteli di dosso, per guardare oltre. “Voglio fare la sezione teatrale al liceo” mi spiega mia figlia. Guardo mia moglie poco convinto: ma non aveva scelto una scuola pubblica? Su questo io non transigo, niente scuole private. È un fatto ideologico, pregiudiziale, lo so (si vive di pregiudizi). E anche economico. “Certo che è un liceo pubblico”, dice lei. Ma come, insisto, non ci sono mai i soldi neppure per la carta igienica e per il teatro sì? 

Va bene, è ora di scoprire le carte. Io ho fatto una scuola tecnica, perché secondo mia madre - che all’epoca scelse per me - avrei trovato un lavoro sicuro. Non mi è servito a niente. Mai avuto una busta paga in vita mia. Ora mia figlia vuole fare le cose che mi sarebbe piaciuto fare alla sua età. Sono invidioso, ecco la verità. Ne riparlo con Luca, a pranzo. Dov’è la fregatura, gli chiedo, dove trovano i soldi? “Probabilmente la scuola partecipa al Progetto LAIV” mi dice lui, non curante. Progetto LIVE?, E che cavolo è? “LAIV”, ripete. “Si pronuncia come si scrive. È l’acronimo di Laboratorio delle Arti Interpretative dal Vivo. È un progetto di Fondazione Cariplo, con la collaborazione dell’Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia”. Inizia a parlarmene. L’idea è quella di sostenere laboratori di musica, teatro e teatro musicale nelle scuole superiori della Lombardia. Avessi potuto farlo io da ragazzo, penso. Le superiori furono una pizza mortale per me. Mi sfogavo suonando col gruppo di amici nelle cantine con le pareti ricoperte di contenitori di uova. O suonavo o studiavo. Suonavo, in realtà; sono stato un pessimo studente.
“Abbiamo un sistema scolastico ancora troppo rigido” continua Luca. “il mondo oggi chiede elasticità mentale, capacità creativa, adattamento. Cose che sui banchi non si possono spiegare”. Ci vuole il teatro, insomma. Come si vede nei film americani. Capitano, oh mio capitano! Sarà la solita cosa da liceo di fighetti del centro, gli dico per tagliare corto. Alza gli occhi al cielo, sbuffando. “Sei micidiale” mi dice. Perché, non è così?, insisto. Lui guarda l’ora. Poi l’agenda. “Cosa fai domani pomeriggio?” mi chiede.
L’appuntamento è in via Dini, davanti all’Istituto Varalli, zona Chiesa Rossa, periferia sud di Milano. Curiosa la vita, è la stessa scuola che ha frequentato mia moglie. Lei ha fatto il turistico, c’è anche un liceo linguistico. Che ci sto a fare qui? Ci raggiunge Michele Diegoli, il professore che ha seguito il Progetto LAIV per l’istituto. Beviamo un caffè assieme, lui è un fiume in piena: “ho sempre amato fare cabaret, conosco quanto possa essere importante riuscire a stare su un palco, mettersi in gioco. Abbiamo progettato laboratori in lingua, prima in tedesco, poi in spagnolo. Quest’anno lo facciamo in francese”.

DSC 8504 pbQui, al Varalli, in questa scuola di periferia? Niente fighetti del centro, niente borghesucci viziati? Luca ascolta. Con me si fa paziente e didascalico: “LAIV esiste da otto anni. Fondazione Cariplo ha assegnato 180 contributi triennali a scuole di tutta la Lombardia: licei, istituti tecnici e istituti professionali. 8000 studenti, non so se mi spiego. Sono stati investiti quasi quattro milioni e mezzo di euro”.
Saliamo le scale dell’istituto, Michele ci spiega che oggi c’è il primo giorno di prove di quest’anno. Mi presenta la professoressa di francese che dovrà seguire l’aspetto didattico del progetto. “Ci sono molti studenti extracomunitari in questa scuola” mi viene spiegato. “Spesso scelgono il linguistico perché facilitati dalla madre lingua, poi anche perché il bacino d’utenza è quello di questa zona di Milano”. Capisco cosa vogliono dirmi, abito in via Padova, i compagni di classe delle mie figlie hanno genitori che vengono da mezzo mondo. “L’anno scorso, durante la rappresentazione, i ragazzi hanno recitato un dialogo in sette lingue diverse. Filippino, bulgaro, spagnolo... Abbiamo rappresentanti di quattro continenti. L’intero mondo a disposizione in una scuola”. Sento un vociare che proviene da un’aula, m’avvicino e scorgo una giovane insegnate che batte le mani e chiede di muoversi come se si camminasse nello spazio siderale. Una ventina di ragazze e ragazzi iniziano a passeggiare, lenti, evitandosi, come particelle che s’attraggono e respingono. Poi l’insegnante aumenta il ritmo del battito, i ragazzi s’affrettano. Più che nello spazio ora sembrano impiegati ritardatari in metropolitana. “Per partecipare abbiamo seguito un format - mi spiega Michele - dove abbiamo prima creato l’equipe dei docenti e dirigenti coinvolti, e di chi avrebbe condotto i laboratori. Poi assieme abbiamo progettato il percorso formativo”. I ragazzi nel frattempo hanno finito il loro esercizio di riscaldamento. Michele mi presenta Marta, l’attrice/insegnante che dirige il laboratorio. È poco più di una ragazza, minuta ma dal pugno di ferro. I ragazzi con lei ridono, si conoscono dallo scorso anno, ma l’ascoltano attenti ogni volta che dà indicazioni sulle cose da fare. Io sono affascinato da questo gruppo di adolescenti. Ce n’è d’ogni risma: il dinoccolato, la timida, l’espansivo, il goffo, la vanitosa. Mentre un gruppo si isola nel corridoio per preparare una piccola rappresentazione che faranno per noi, provo a chiacchierare con alcuni di loro. Com’è che uno decide di fare un laboratorio teatrale?, chiedo.

Progetto Laiv

“A dir la verità io non ci volevo neppure venire” mi risponde una ragazza. “Dovevo accompagnare un’amica. Poi lei non è venuta il primo giorno. E ora non posso farne a meno”. Addirittura! E perché? Mi risponde Omar: “Io non pensavo fosse così. Cioè, non pensavo sarebbe venuto così bene, che ci saremmo divertiti così”. Dopo un avvio timido nel rispondermi ora i ragazzi sgomitano, ognuno dice la sua. “Mi ricordo quando sei venuto la prima volta” dice una piccolina al suo compagno.
“Avevi detto: boh io vedo com’è…” il ragazzo ride, mi vedo la sua espressione sufficiente, quella di ogni adolescente che crede di sapere già tutto della vita. E poi cos’è successo?, gli chiedo. “Dopo cinque minuti ho tolto la felpa e mi sono detto: ok, lo faccio anch’io!” Nel mentre torna il gruppo dal corridoio. Ci improvvisano uno spettacolino dove imitano le dinamiche di relazione scolastiche: docenti e insegnanti di teatro compresi. Una di queste finge il passo dell’oca per rappresentare Marta, che guarda, arrossisce e sotto sotto, si diverte. La scenetta in effetti è spassosa.
“Ma davvero credete che io sia una nazista?” Esplode il coro generale: “Nooooo!”
Ma siete sempre tutti così sfacciati?, chiedo. Mi risponde Martina: “Io sono sempre stata timida, all’inizio non riuscivo quasi a parlare. Solo verso la fine, l’anno scorso, mi sono aperta, ho iniziato a sentirmi a mio agio”. Lo conferma anche Giulia: “Io l’avevo fatto anche alle medie, ma alle superiori è differente. Qui ci sono ragazzi di classi diverse. Mi ha aiutato ad aprirmi, sai, io sono introversa, non ci volevo proprio venire”.
Michele guarda i suoi ragazzi beato. Mi piacerebbe che mia figlia avesse insegnanti così coinvolti. Poi mi dice, sottovoce: “non hai idea di quanto sia stato liberatorio per molti ragazzi difficili. Spesso borderline. Un modo per poter esprimere il loro vissuto complesso. Una cosa che non è solo didattica, ma anche terapia”.
“Abbiamo lavorato su testi perfino cupi, duri”. Mi spiega Marta. “O con un umorismo grottesco. Alla Tim Burton. I ragazzi non si sono mai tirati indietro”. È un impegno fare teatro, come facevate con lo studio? “All’inizio sembrava un gioco un po’ da deficienti. Dopo un po’ quando ci hanno dato il copione, abbiamo capito che c’era da lavorare per davvero. È un impegno che però alla fine ci piace, un impegno divertente”. Chiedo, un po’ malizioso: ma serve a imparare la lingua? “Assolutamente no!” Ridono, solidali. Poi uno si fa serio: “Aiuta perché imparando la parte la senti tua. Dai un senso a quello che dici”. E poi? Come è andata a finire lo scorso anno? “Che abbiamo fatto una rappresentazione per tutti gli studenti dell’istituto”. E non solo, mi spiegano Luca e Michele. Sono ormai già sette edizioni che esiste un festival, LAIV action, dove i ragazzi di tutte le scuole lombarde che partecipano al progetto mettono in scena i loro lavori. Un modo per confrontarsi con altri coetanei. Fuori dai miei ridicoli pregiudizi: liceali, professionali, linguistici. Del centro o della periferia. Di città o della provincia. Ragazzi. Com’erano gli altri?, chiedo. Cerco di stimolare lo spirito di competizione. Le risposte sono di tutt’altra natura. “C’era quello spettacolo…” dice uno. “Quale? Quello sul bullismo?” chiede un’altra. “Quello era proprio bello, sono stati bravi”. Osservazione, spirito critico, impegno sociale. Porca miseria, questa cosa del teatro a scuola funziona! “Pure il liceo di tua figlia ha partecipato” mi rivela Luca. “Anche se non usufruisce più da due anni del finanziamento. Hanno iniziato un percorso con Fondazione Cariplo e ora lo portano avanti autonomamente”.
Al festival LAIV Action - chiedo - andranno anche loro? “Certo. Si confronteranno sulla scena di un teatro vero, con altri studenti di Bergamo, Lecco, Brescia, Milano. Non è bellissimo?”. Sì, maledizione, lo è. Va bene, metto da parte le mie paturnie. Facciamo che alla carta igienica, se serve, ci penso io. Ma al laboratorio teatrale mia figlia non dovrà rinunciarci. Sipario.

Testo a cura di Gianni Biondillo, foto di Luigi Baldelli 

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