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Il museo che restituisce identità e dignità ai migranti: ecco il MUSA

Ha aperto a Milano il MUSA (Museo universitario delle scienze antropologiche, mediche e forensi per i diritti umani) coordinato da Cristina Cattaneo, docente di Medicina legale e Antropologia presso il dipartimento di Scienze Biomediche per la salute e responsabile scientifico del Labanof, Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense della Statale.
La nascita di MUSA è stata possibile grazie al supporto di Fondazione Cariplo, Fondazione Isacchi Samaja Onlus e Terre des Hommes.
Musa nasce per far conoscere quello che la scienza può fare per la giustizia e per i diritti umani restituendo dignità ai morti e ai loro famigliari
Il museo è diviso in sei sezioni, l’ultima stanza è dedicata a uno dei maggiori eventi contemporanei simbolo di violazione dei diritti umani: il disastro del 18 aprile 2015, quando il naufragio di un peschereccio al largo della Libia fece mille vittime tra migranti adulti e adolescenti.
Fino a pochi anni fa erano tutte persone senza nome ma grazie al sostegno di Fondazione Cariplo il team di Cristina Cattaneo ha potuto identificare alcune di queste vittime, dando un nome ai naufraghi del Mediterraneo in cerca di speranza: «Il dato può essere una lettera, una cicatrice, un tatuaggio. Il mio ambito, quello delle scienze forensi, si occupa di utilizzare i dati del corpo dei vivi e morti per combattere crimini e restituire diritti, per esempio quello dell’identità. I dati possono aiutare moltissimo. Sappiamo tutti che centinaia migliaia persone sono arrivate sulle cose fuggendo da guerre e povertà. Molti non ce l’hanno fatta, e sono 30.000 le persone sepolte senza un nome. Come è possibile? Identificare i morti è fondamentale sia per restituire loro la dignità e per rispetto per la vita ma è anche un tema di diritti dei vivi, pensiamo all’orfano minorenne che non riesce a fare il ricongiungimento perché non ha un certificato di morte dei genitori, una vedova che non po' risposarsi e in generale per la salute mentale di chi cerca quei morti. È una gravissima violazione di diritti umani rimanere impassibili di fronte all’esigenza di una madre che deve sapere se il figlio è vivo e morto. Noi sappiamo dalla letteratura neurologica che cos’è la perdita ambigua, una situazione di limbo psicologico che porta, è dimostrato, ad alcolismo, depressione». 

Come si procede? Tramite il Dna, le impronte digitali, i tatuaggi, le fotografie su Facebook: «Dobbiamo raccogliere i dati post mortem e abbiamo bisogno di raccoglierli anche dai famigliari per incrociarli. I parenti sono in transito, nei paesi d’origine, è un lavoro difficile ma non impossibile, infatti abbiamo scoperto sul campo che circa il 60% dei famigliari delle persone decedute sono in Europa. 
Tutti all’inizio ci dicevano “Non si può fare” e invece abbiamo dimostrato che è possibile, grazie al lavoro dei ricercatori di 13 università, dell’ufficio del Commissario straordinario per le persone scomparse e al sostegno di Fondazione Cariplo. Siamo riusciti a raccogliere i dati di 70 naufraghi e abbiamo identificato 60 persone dando risposte alle famiglie che hanno perso i loro figli. È un lavoro che ci ha permesso di andare in Europa in Commissione diritti umani a chiedere risorse e nuove leggi. Speriamo di arrivare a Strasburgo, ma siamo solo all’inizio di un percorso lungo
».

 

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